Covid Nº5
Sulle orme di Coco Chanel in seguito alla crisi del fast fashion
di Francesca Parisi
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“Sono due posture diverse: prima stavo in piedi, le spalle indietro, il braccio e il gomito piegati come quelli delle ballerine. Posizionando le prime tre dita come una sorta di pistola, inclinando il polso e sollevando, perpendicolari al palmo, l’anulare e il mignolo; reggevo due piatti in una stessa mano. Ora premo il piede sulla pedana come un acceleratore, ho entrambe le mani sul tavolo parallele come due corsie di una strada in cui scorrono metri di tessuto e i pollici convergono verso l’interno.”
Barbara Lazzarin, proprietaria di una piccola azienda in espansione per la produzione di mascherine e abiti con tessuti antivirali, spiega attraverso questa geometria delle mani come è cambiata la sua vita. Fino al 2020 era maître in un piccolo ristorante nella provincia di Treviso, ma dopo il Covid 19, lei è stata una delle tante vittime economiche. Nel periodo di quarantena, Barbara e il marito perito chimico erano a casa della suocera Paola, ex sarta di una delle prime fabbriche Benetton. Mentre l’Italia impastava pizze e torte, Paola insegnava alla cognata a cucire.
I segreti di questo mestiere non sono racchiusi solo nelle mani di Paola e poi di Barbara, bensì sono intrecciati nel passato industriale veneto, più in generale italiano. Nel 1870 Schio, comune di neanche 40.000 abitanti in provincia di Vicenza, era la capitale dell’industria tessile nazionale, grazie al Lanificio Rossi, passato poi di proprietà al gruppo Marzotto, ancora leader nel settore. “Al posto di Hermes – scherza Barbara – nel Medioevo andava di moda kermes, un insetto essiccato da cui si otteneva il rosso veneziano”. La signora Paola c’era quando nel 1955 Luciano Benetton vendette la sua preziosa fisarmonica e Giuliano Benetton la sua bicicletta per comprare una delle migliori macchine da maglieria che costava allora trecentomila lire. Erano altri tempi: la catena produttiva era caratterizzata da un’alta intensità di lavoro umano con una scarsa automazione, e i grandi gruppi tessili italiani si specializzarono nella creazione del tessuto di qualità prima ancora che nel capo alla moda. Negli anni 50 con il boom economico, crebbe l’attenzione dei consumatori verso i beni voluttuari, negli anni 70 con il periodo di grande inflazione del petrolio, Natalia Aspesi, il 23 Marzo 1976 su Repubblica, scriveva: “Comprare vestiti sembra essere diventato l’ultimo rifugio all’inquietudine e all’insicurezza della nostra industria in crisi. Vendere vestiti all’estero è la certezza di coprire buona parte dei miliardi spesi per importare petrolio.” Negli anni 90, lo shopping diventa una forma di intrattenimento e perciò richiese ritmi accelerati di progettazione, produzione e distribuzione per soddisfare una domanda crescente di abiti. Nasce il fast fashion, termine coniato dal New York Times nel 1989 quando Zara aprì un negozio a New York: secondo l’articolo bastavano 15 giorni perché un capo di abbigliamento di Zara passasse dalla mente di uno stilista alla vendita in negozio. Democratizzazione della moda, vestirsi bene e in modo sempre diverso (52 micro collezioni all’anno) era l’offerta attraente ed economica del gruppo Inditex (Zara, Massimo Dutti, Pull & Bear), supportata dalla manodopera a basso costo (120 euro al mese) di paesi come il Bangladesh. Per almeno due decenni riciclare e rammendare moda è sempre stato fuori moda. Nel 2015, in media ogni americano produceva circa 75 chili di rifiuti tessili l’anno, mentre il 9% degli acquirenti in Gran Bretagna ammetteva di acquistare abiti solo per pubblicare una foto su Instagram e rispedire subito indietro il capo. Il meccanismo si ingolfò nel 2018 in cui entrò in crisi lo storico marchio low cost americano Forever21 (in Italia non ha mai avuto negozi), andato poi in bancarotta nel settembre 2019; poi iniziarono a calare, dopo 44 anni di storia, anche i profitti di H&M. Il Guardian scriveva che forse la Generazione Z – più esigente perché cresciuta con argomenti come il riscaldamento climatico, i diritti Lgbtq+ e le disuguaglianze sociali – avrebbe decretato la morte del fast fashion, preferendo il noleggio di abiti o acquisti di seconda mano. Poi, arrivò il Covid 19, e il settore del fast fashion subì altri pesanti cali delle vendite, cercando di sopravvivere con gli acquisti online. Ad esempio, H&M – che serve 74 mercati globali – durante il lockdown del 2020 chiuse 3441 negozi su 5062, mantenendo aperti circa 50 mercati digitali, con un calo delle vendite pari al 46%. Nei primi mesi successivi al lockdown, si registrò un aumento delle vendite, testimoniato dalle code precise e ordinate fuori dai negozi di Zara. Si parlò di revenge spending: un’ingordigia di acquistare vestiti dopo un periodo di astinenza, come una persona che è stata a dieta per mesi e poi di impulso divora un’intera pasticceria: avrà la nausea, vomiterà tutto, e non vorrà più bignè.
E così mentre la vecchia macchina Singer della signora Barbara ha ripreso a funzionare sotto l’occhio attento dell’ex sarta Benetton Paola; il mercato del fast fashion, dopo 50 anni di storia, si è inceppato innescando rivolte in Bangladesh, dove dava lavoro a circa 4,4 milioni di persone. Durante il 2021, migliaia di telai e le macchine tessili sono stati bruciati dalle donne di Dhaka, una sorta di versione orientale del Luddismo che si si sviluppò nell’Inghilterra della rivoluzione industriale del XIX secolo. Gli ingredienti sono gli stessi: disoccupazione, pessime condizioni lavorative e un compenso molto basso.
“Finiva un mondo, un altro stava per nascere. Io stavo là; si presentò un’opportunità, la presi. Occorreva semplicità, comodità, nitidezza: gli offrii tutto questo a sua insaputa”. Barbara, parlando della propria attività, vorrebbe attribuirsi la paternità di queste parole, ma in realtà sono di Coco Chanel alla fine della Prima Guerra Mondiale. Barbara è convinta che progettare abiti significhi pensare a delle cose che aiutino l’utente a fare qualcosa. “Trattare una moda – prosegue Barbara – in cui il ruolo non è puramente stilistico, ma si occupa di sicurezza, di benessere e di protezione”. Lo avevo capito già Coco Chanel quando aggiunse sottili cinturini alle borse per portarle a tracolla in modo tale che le donne avessero le mani libere. Karen Karbo, scrittrice americana, sostiene che Chanel non attinse il suo stile dalle classi più povere, ma dal genere umano.
Oggi, nel 2022, le persone comprano meno, ma meglio. Questa disintossicazione della moda è dovuta da diversi fattori. La prima è che non si acquista semplicemente un vestito, ma un lifestyle. Si compra per rivestire di cotone, di lana, di velluto uno spazio reale di vita, ambizioni, esperienze, occasioni. A partire dal 2020, in seguito al Covid 19, la geografia delle persone si è ristretta: il dating è sempre più online; a molte aziende è piaciuto lo smart working tanto da procrastinare la sua data di scadenza e si preferiscono le ciabatte per ritirare la pizza consegnata a domicilio rispetto ai tacchi per andare al ristorante. Si sono ridotte dunque le occasioni per i blazer a 29,99 euro da Zara, e un paio di jeans skinny da 19,99 euro ora non sono più così imprescindibili, soprattutto dopo aver appurato che la maggior parte dei vestiti delle catene di fast fashion non sopravvive indenne ai frequenti lavaggi ad alta temperatura, (uno studio del 2009 ha dimostrato che tali capi sono progettati per durare meno di 10 lavaggi). Nel 2020, secondo un sondaggio, il 35% delle donne italiane si era ripromessa di comprare meno vestiti per il futuro, di resistere alla loro luccicante irrilevanza, con il fine di risparmiare per beni che durano più di una stagione come macchine, case e fondi pensionistici. Data la chiusura di altri negozi di Zara, H&M per l’Italia si vede che hanno mantenuto questo proposito.
La moda, inoltre, come scrive Gillo Dorfles critico d’arte, appartiene alla città, se intendiamo quest’ultima come espressione di libertà e soprattutto come luogo dello scambio fisico e simbolico. La città significa gestualità, relazioni, mescolanza di culture; in sostanza abitare la città vuol dire mettere al centro il concetto di differenza come motore in relazione a tutto ciò che ci mettiamo addosso. Nello spazio e nel tempo urbano si trasformano i colori, tessuti, le citazioni e le gestualità. Venendo a meno l’interazione tra le città e con la città, diminuisce anche il “linguaggio della differenza” di cui si nutrivano le collezioni di moda. Saggia dunque scelta di aderire all’appello a suo tempo di Giorgio Armani di rallentare i tempi della moda e ridurre il numero delle collezioni. “Una volta, per realizzare un singolo abito di sartoria” – ammonisce la signora Paola – “ci volevano 22 ore di lavoro, 220 passaggi, di cui 80 solo di stiratura, equivalenti a 440 mani che operavano su un singolo capo”. C’è un altro fattore importante che ha influito sulla riduzione degli acquisti: ed è l’abbinamento corpo – abito. Da sempre addomestichiamo e indossiamo il nostro corpo, costruendo su di esso un altro corpo, una pelle diversa con pitture, tatuaggi, piercing, o semplicemente con l’abito o con gli ornamenti. L’abito è responsabile della strutturazione dei comportamenti del corpo e ne determina i movimenti. A prova di ciò, si può citare l’origine del detto “nobile dal sangue blu”: nella Spagna della metà del XV secolo erano di rigore abiti assai attillati soprattutto nella parte del collo e della vita che non permettevano al sangue di defluire normalmente e quindi chi indossava questi indumenti assumeva un colore violaceo sul collo, sulla faccia e sulle mani. Tutto questo allo scopo di costringere nobiltà e cortigiani a movimenti lenti e pacati, mai involontari e di scatto.
Durante la pandemia, è ricca la letteratura psicologica a riguardo, le persone hanno riscoperto di essere dotate di un corpo. Un corpo oggetto di contatto, contagio e che perciò deve essere lavato, protetto e posizionato per quasi un anno e mezzo a distanza dagli altri corpi. Dalla consapevolezza della propria corporeità, è derivata un’attenzione maggiore alla scelta del materiale, del tessuto con cui ci copriamo. Per questo sfogliando Elle si trovano foto di modelle (realizzate con Facetime, o con la webcam del pc da casa) che indossano bluse, maxi dress e morbidi pantaloni soprattutto di cotone. Insieme alla lana e al lino, il cotone è il tessuto più antico al mondo; attualmente si sta incrementando la sperimentazione del cotone biologico, prodotto eliminando l’uso di pesticidi e fertilizzanti chimici, tossici e persistenti nell’ambiente. Nel 2014, erano solo 22 paesi in tutto il mondo che coltivavano il cotone biologico, oggi siamo a 40. Qualità del tessuto, minimalismo (è passata alla storia la copertina completamente bianca del numero di aprile 2020 di Vogue Italia) e comodità: l’abbigliamento sportivo ha ottenuto piena cittadinanza in qualsiasi ambiente e situazione (Nike continua ad essere l’azienda di moda con il più alto fatturato).
“La moda nasce da una necessità: nel 1879 Thomas Burbery ottenne il brevetto per la gabardine, un tessuto di cotone impermeabile isolante da acqua e vento con cui realizzò quello che oggi è conosciuto come il trench (l’impermeabile); nel 1914 il ministro della guerra inglese lo dichiarò come capo ideale per tutto l’esercito schierato al fronte, definendolo cappotto da trincea.” Spiega Barbara mentre mi illustra come accedere allo showroom digitale (una vetrina online) delle sue giacche realizzate con tessuti antivirali. Il costo di una giacca della signora Barbara? Circa quattro jeans skinny di Zara.
Si tratta di indumenti in cui durante il processo di filatura vengono inseriti ioni d’argento che impediscono ai tessuti di diventare una superficie ospite per la diffusione di virus e batteri, rimanendo resistenti a lavaggi. Anche l’azienda Marzotto ha proposto collezioni con questi materiali, incontrando un discreto successo. Barbara ha realizzato parte della sua collezione vincendo al bando indetto da PTT: Progress Tech Transfer, fondo italiano dedicato al trasferimento tecnologico nell’ambito della ricerca pubblica nel campo della sostenibilità, sottoscritto da Cassa Depositi e Prestiti e dal Fondo Europeo degli Investimenti. Un altro tessuto che sta sperimentando Barbara è il polipropilene (PP): si tratta di un materiale versatile, resistente e antisettico, tanto da essere utilizzato per i vasetti degli yogurt quanto nella produzione tessile di intimo e di tecnico sportivo. “Polipropilene ovunque” esclama Barbara. Sembra improbabile? Nel 1985 Miuccia Prada fece una cosa quasi impossibile: fare del nylon un materiale di lusso, e ci riuscì visto che adesso il nylon è ovunque, su zaini, borse, accessori. Questo perché il nylon è leggero, lavabile e indistruttibile. Basta sapere come ricontestualizzare un materiale, un oggetto, come faceva Marcel Duchamp con i ready made: sottrare il significato primario delle cose dal loro contesto d’uso tradizionale per inserirle in un’altra serie.
“Tutto è iniziato con le mascherine. Le ho realizzate in tessuto lavabile, e differenziate per uomini, donne e bambini. Quelle da uomo possono essere messe come fazzolettini da taschino quando si è al chiuso, quelle da donna, essendo double face, come fasce per capelli. Ho incominciato a produrre anche custodie (altrimenti dove le metti? Tra la biancheria?) per mascherine riutilizzabili.” Possiamo dire che se nel 2020 la mascherina era un obbligo, ora è un accessorio al pari degli occhiali da sole. Barbara sta cercando collaborazioni con il settore ottico, da sempre leader in Veneto (Safilo, Luxottica, De Rigo), per realizzare mascherine da abbinare agli occhiali da sole e il cui tessuto non appanni le lenti.
Barbara chiude il pc e noto un piccolo callo sul pollice sinistro, forse un’ultima traccia di quando portava due piatti con una mano. Accompagnandomi fuori dall’ufficio, intravedo due cornici appese: la prima è una foto di Coco Chanel da giovane con il classico corto a Parigi. “Chanel lanciò la moda del capello corto. Fu una fatalità, si bruciò accidentalmente i capelli su un fornello e tagliò anche il resto. Dopo poco tempo le giovani donne alla moda imitarono il suo taglio” racconta Barbara. Nell’altra cornice è riportato il discorso di Anatole France, premio Nobel per la letteratura nel 1921: “Se nel guazzabuglio di opere che verranno pubblicate cent’anni dopo la mia morte, io avessi la facoltà di scegliere un libro, sapete quale prenderei? Prenderei un giornale di moda, per sapere come si vestiranno le donne un secolo dopo il mio trapasso. E tali vestiti mi darebbero sull’umanità futura più informazioni che tutti i filosofi, romanzieri, i predicatori e gli scienziati messi assieme”.
Forse, se qualcuno nel 2100 troverà in soffitta un numero di Vogue 2022, penserà che le mascherine fossero di tendenza, una moda nata in realtà come il taglio corto di Coco Chanel e il trench di Burbery.