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Lo smart working ci ha reso troppo smart 

di Gloria Ferrari 

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È il 2020. Raffaele cuoce il salmone alla piastra due minuti per lato. Gli asparagi di contorno gli si sposano bene, leggermente scottati in padella previa accurata mondatura. Il sacchetto del pranzo ha un bel colore, glielo dicono sempre i colleghi. D’altronde lui è uno che sta attento alla linea ma s’ingozza di proteine per paura di svegliarsi senza più bicipiti. A Carlo, il suo supervisore, piace punzecchiarlo a mensa, offrendogli un densissimo budino al cioccolato. A Raffaele non dispiace essere preso in giro, non per questo. L’ora di pausa se la gode comunque assieme ai colleghi d’ufficio e non.

Di lavoro non si parla quasi mai, tranne quando ci sono promozioni in vista. Andrea gli fa sempre la stessa battuta mentre Raffaele addenta un asparago verdognolo. Gli chiede se quando porta fuori a cena la fidanzata le domanda se c’è posto per il suo salmone nella borsa. Si ride parecchio, stando attenti a non strozzarsi. Alcuni giorni capita che Andrea si ritrovi a mangiare in fondo alla tavolata. Il tono di voce si solleva al punto tale da sparpagliarne l’eco fino all’altro capo. Si ride un po’ meno di qua, ma si ride comunque. Raffaele è il più giovane della compagnia, assunto con stage e poi tenuto anche dopo il termine. I colleghi gli infondono quell’amore paterno tipico del genitore timido che non è in grado di esprimere l’affetto a parole e lo sbriciola nei gesti.

Immaginare la stessa scena nel 2022 e considerarla normale richiede uno sforzo creativo non indifferente. A distanza di due anni dallo scoppio della pandemia causata dal Coronavirus il salmone cuoce gli stessi minuti per lato, ma Raffaele lo mangia caldo, appena cotto, al tavolo di casa. Lo smart working (misura cautelare presa a metà marzo del 2020, che prevede di lavorare da casa) piace alle aziende. Oggi le stime mostrano che oltre il 40% dei lavoratori continua e (con molta probabilità) continuerà a starsene a casa. In maniera continuativa o a settimane alterne, chi ne ha seguito gli sviluppi autorizza a definirla una situazione permanente ormai. I salotti di molti italiani hanno cambiato forma, ospitando scartoffie, portatili, tablet e alimentatori di vario tipo. È stato necessario, in questi 600 giorni, trovare una quadra, racchiudere due aspetti importanti della propria vita (lavoro e quotidianità) lasciando comunque una parvenza di ordine. Questo perché ci si vede online, ci si videochiama per raccontarsi gli ultimi sviluppi: “faccia a faccia” è più facile capirsi.

Alcuni si fanno vedere con un’enorme libreria alle spalle. Altri preferiscono una parete spoglia e sobria. Socializziamo attraverso oggetti, spazi, modi di sederci sul divano. Qualche mese fa Noju, startup giapponese, ha lanciato sul mercato un’app per smartphone pensata per lo smart working. Si chiama BehindYou e, in poche parole, ti suggerisce dove posizionare la videocamera (prima di una conferenza, ad esempio) per ottimizzare il tuo aspetto e lo spazio circostante. La funzione premium permette di mettere mano anche ad alcuni elementi dell’arredamento. Ad esempio, con il pacchetto base puoi eliminare il fastidioso riflesso sugli occhiali da vista che appare in video. Con qualche euro al mese in più, invece, puoi aggiungere un paio di libri alla tua raccolta o far comparire un vaso di fiori sulla mensola. Tutto incredibilmente realistico. Nawigasy, l’ideatore a capo di Noju, si è mostrato entusiasta. A quanto pare anche gli utenti: il prodotto è già stato scaricato più di 1 milione di volte: “L’idea è nata grazia a mia figlia. Per tenerla buona durante una conferenza l’avevo fatta sedere accanto a me, dandole qualcosa da colorare. Nel bel mezzo della riunione mi aveva strattonato la giacca dicendomi -Papà, quei signori ti vedono con un grosso doppio mento- “. Nawigasy si era reso di essere effettivamente davanti ad una videocamera solo in quel momento. BehindYou risponde all’esigenza di sembrare al meglio delle proprie possibilità per tutto l’arco di tempo lavorativo, o almeno fino all’ora di pranzo.

Le telecamere si oscurano solitamente per poco più di 60 minuti (in media il tempo dedicato alla pausa pranzo) e i microfoni si ammutoliscono. Capita, tra una forchettata e l’altra, di sentire un “Federica li ha finiti i compiti?”, perché qualche collega distratto ha cliccato inconsapevole l’icona dell’audio. Alcuni sorridono, altri pensano “Ma chi è st’imbecille”. Andrea a quanto dice Raffaele, chiama tutti per cognome. A volte ci aggiunge un “signor” davanti, con una disinvoltura tale da farlo sembrare naturale. Ognuno vive nella sua personale bolla che gli impedisce di interagire con quella accanto. Un documento stilato da Jobout, Istituto di ricerca nato nel febbraio del 2021, ha dimostrato che il 73% degli intervistati fa fatica a distinguere ambiente famigliare e lavorativo. In più, tende a vedersi a fatica in relazione agli altri. Quello che per il giornalista Marco Panara si traduce in “società di frammenti” e che tradotto consiste “nell’idea che da soli è più facile farcela che insieme”. Un fenomeno, dunque, che prevede un aumento notevole di individualismo nel mondo lavorativo. Ritrovarsi a lavoro senza doversi neppure togliere le ciabatte sta spodestando l’autorità di Aristotele, per il quale “l’uomo è un animale sociale in quanto tende ad aggregarsi con altri individui e a costituirsi in società”. Non che la socialità dipenda esclusivamente dal posto di lavoro, ma lavorare in gruppo aumenta il senso di appartenenza e di utilità. La stessa socialità che nel 2022 si è ridotta notevolmente anche sui mezzi di trasporto. Partiamo dal presupposto che socializzare non sempre coincide con il parlare o l’uscire insieme a qualcuno.

È il 2020. Raffaele si sveglia più o meno alle 6.00 ogni mattina. In ufficio lo aspettano per le 8, ma l’itinerario per arrivarci prevede un po’ di cambi. Il treno parte da Torino Porta Nuova alle 6.54. Non ha un vagone fisso. La scelta dipende dall’orario di arrivo in stazione e dalla voglia di camminare lungo il binario, in attesa del treno. Dal 2018 compie lo stesso tragitto: una routine che si rispecchia anche nelle persone che incontra. Quando sale sul vagone numero 3, ad esempio, è certo di trovare il ragazzo con i capelli a spazzola che ogni mattina legge il giornale. Raffaele ne approfitta per curiosare fra i titoli principali, storcendo un po’ il capo per leggere le notizie messe di sbieco. Certo che il ragazzo se n’è accorto, lo lascia fare, sorridendogli di tanto in tanto. Non si sono mai parlati, eppure Raffaele lo definisce un conoscente. È difficile negare che tra di loro si sia instaurata una certa socialità, non nel modo convenzionale a cui siamo abituati. Per le 7.18 è previsto l’arrivo a Chivasso, da dove solitamente Riccardo gli dà uno strappo fino a Saluggia perché entrambi lavorano lì. Sono passate poco più di due ore dalla sveglia, in inverno è ancora buio e Raffaele ha già interagito in diversi modi con almeno 4 persone.

Per tutto il 2022 l’ANAS ha previsto una diminuzione degli spostamenti per via del lavoro di almeno il 30%. Trenitalia ha confermato il drastico calo del numero degli abbonati di almeno 1 milione di utenti. I treni regionali, soprattutto quelli concentrati nelle prime ore del mattino hanno ridotto il numero di corse.

È pur vero che da una parte, come aveva previsto uno studio condotto da Developement Economics nel 2018, la riduzione del pendolarismo avrebbe portato a risparmiare fino a 180 milioni di tonnellate all’anno di emissioni di anidride carbonica. Tuttavia la ricerca aveva previsto anche grossi miglioramenti per la salute psicofisica e riduzione di stress. Invece sul finire del 2021 LinkedIn, selezionando un campione ristretto di 2000 individui, ha chiesto ad ognuno di loro se, dopo aver lavorato per un anno da casa, sentisse di aver abbassato il livello di stress. Più del 40% degli intervistati si è dichiarato più ansioso di prima. Ad esempio, il 27% dei lavoratori ha difficoltà a dormire e un altro 26% sente di non essere concentrato durante il giorno. A questi si aggiunge un dato nuovo, un aspetto a cui nessuna ricerca aveva prestato sufficiente attenzione. Lo scorso febbraio la WHO (World Health Organization) ha chiesto ai lavoratori intervistati se si fossero rivolti ad app o chatbot per avere un supporto psicologico e comunicare il proprio senso di solitudine. Il 40% di loro (il 25% di questi ha dichiarato di vivere con qualcuno) ha confermato di aver scaricato o chattato con un bot almeno una volta, soprattutto dopo una giornata intera in videochiamata (e, quindi, teoricamente “in compagnia”). Il fatto di ritrovarsi costantemente faccia a faccia con lo schermo del computer che, se vogliamo, funge da specchio, non aiuta a instaurare una sana comunicazione con chi c’è dall’altra parte.

È il 2020. Raffaele si assicura che in ufficio le penne sul tavolo siano sempre cariche. Se l’inchiostro finisce mentre si compilano dei documenti importanti, ufficiali, tocca ricominciare per non far vedere la sbavatura. Quelle volte in cui ha provato a ripassarci su, Carlo se n’è immediatamente accorto, richiamandolo nel suo ufficio. L’aveva guardato dritto negli occhi dicendogli: “Mica li paghi tu i fogli, stampane di nuovi e ricomincia”. Lui era arrossito, se n’erano resi conto un po’ tutti. I colleghi gli avevano fatto cenno da lontano di stare tranquillo e respirare, perché a Carlo capitava spesso di avere una giornata negativa.

I dati riportati da Digital2021 dicono che passiamo molto tempo davanti al computer, molto più di prima, per un totale di circa 130 giorni all’anno. Trenta in più rispetto al 2019, quando in media rimanevamo davanti agli schermi per poco più di 6 ore al giorno. Le previsioni mostrano che alla fine del 2022 si potrebbero aggiungere al computo finale altri 2 giorni, per un totale di 132. “Sento una forte alienazione data dalla mancanza di cambio fisico di luoghi durante la giornata, dall’uso esclusivo di strumenti tecnologici di comunicazione e dalla mancanza di contatti interpersonali”, ha dichiarato un utente scelto per partecipare al sondaggio dell’Agenzia Dire su ‘Come sta andando lo Smart Working’.

Fissare uno schermo per 8 ore al giorno (in molti casi anche di più) si sta lentamente sostituendo all’interazione visiva. Arrossire per un complimento o un rimprovero non fa più la differenza perché, a meno che non si abbia una videocamera da 4k, si fa fatica a vederlo. Notizia delle ultime settimane è che un’azienda francese sta pensando di mettere in commercio un apparecchio in grado di riprodurre i suoni presenti in ufficio. Dalla stampante al fax, dal rumore delle ruote delle sedie che si spostano da una scrivania all’altra alle risme di fogli sistemate sugli scaffali. Alcuni hanno trovato l’idea svilente perché “Non ci manca il fax, la stampante. Ci manca che una voce, una persona in carne ed ossa che ci chieda di rispondere al telefono o di passargli quella cartelletta o semplicemente ci dica grazie”. Invece, con una mano sul mouse e l’altra sulla tastiera è facile accontentare un collega che chiede di inviargli un file.

Sono passati due anni, due anni in cui non sapevamo cosa aspettarci, in bilico tra sperare di tornare alla normalità e auspicare qualche cambiamento (in meglio, s’intende). Invece, tra gli altri, ci è rimasta una grande necessità, un’abitudine difficile da cambiare e, allo stesso tempo, uno dei primi elementi a cui abbiamo dovuto rinunciare: il contatto umano.

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