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La fine degli allevamenti intensivi?
di Lorenzo Buzzoni

 

Migliaia di lavoratori del settore agroalimentare stanno scioperando in Piazza del popolo a Roma contro la Cow Tax, la tassa che applica un incremento del 50 per cento sul prezzo dei prodotti alimentari animali provenienti da allevamenti intensivi. “L’Unione Europea ci sta stritolando” - urlano in coro gli operai della Amadori, una delle maggiori aziende agroalimentari italiane specializzata nel settore avicolo.  


Pubblicata sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea il mese scorso, la Cow Tax sta avendo un impatto significativo sulle scelte dei consumatori. Secondo gli ultimi dati Eurostat, infatti, l’aumento del prezzo della carne e dei prodotti di derivazione animale provenienti da allevamenti intensivi, ha provocato una contrazione della domanda di tali alimenti di circa il 30 per cento negli Stati dell’Unione Europea. 

 

L’obiettivo della Cow Tax è scoraggiare la produzione degli alimenti che hanno un effetto dannoso sull’ambiente e sulla società, e che hanno avuto un ruolo dominante nello sviluppo delle epidemie comparse negli ultimi cento anni. “Sebbene nell’Unione Europea il numero di animali uccisi negli allevamenti intesivi sia inferiore rispetto a quello di Stati Uniti e Cina, abbiamo voluto mandare un messaggio. La carne non verrà del tutto bandita. Ma solo quella prodotta in maniera alternativa ed ecosostenibile potrà essere venduta” ha spiegato il Commissario all’agricoltura dell’UE Janusz Wojciechowski ai deputati del Parlamento Europeo durante la seduta di stamattina.   

 

Se prima dell’emergenza Covid-19 l’adozione di tale misura sarebbe stata condivisa solo da una ristretta minoranza (basti pensare che in Italia, sebbene negli ultimi anni ci sia un trend crescente, solo l’8 per cento della popolazione dichiara di essere vegetariana o vegana), adesso la Cow Tax è sostenuta da una larga fetta della società. L’esperienza del coronavirus ha infatti accelerato la riflessione sull’impatto che il sistema di produzione intensivo ha sull'ambiente. Una riflessione che è iniziata esattamente cinquant’anni fa con la pubblicazione del Rapporto sui limiti dello sviluppo a cura del Club di Roma e che ha raggiunto rilevanza globale con l’azione della giovane Greta Thunberg e gli scioperi del venerdì organizzati dagli studenti di tutto il mondo. Ed è proprio all’interno del movimento “Fridays for future” che sono emerse le pressioni sulle istituzione dell’UE per avviare un processo di cambiamento del modo in cui il cibo viene prodotto. 

 

Adesso, accanto all’evidenza che la produzione di carne, latte e uova incide pesantemente sul cambiamento climatico - il 18 per cento delle emissioni alteranti il clima è infatti costituito dai gas derivanti dagli allevamenti intensivi, superando persino il settore dei trasporti responsabile del 13 per cento - si è aggiunta la consapevolezza che la distruzione degli habitat per ricavare pascoli e campi coltivati per il mangime è tra le principali cause della riduzione della biodiversità e del contatto tra specie selvatiche e domestiche, terreno fertile per lo spillover, il salto di specie del virus dall’animale all’uomo. 

 

La pandemia appena conclusa, con il salto del virus dal pipistrello all’uomo, attraverso la mediazione di un animale domestico come il pangolino o il maiale, ha confermato ciò che era stato sottolineato dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (Unep) nel 2016 dove si legge che “circa il 60 per cento delle malattie infettive negli umani derivano da una zoonosi. Se molte hanno origine nella fauna selvatica, il bestiame d’allevamento serve spesso da ponte epidemiologico tra la fauna selvatica e l’infezione umana”. È quindi uno slogan superficiale quello che punta il dito solo contro il commercio di animali esotici per cibo e pratiche considerate ‘mediche’ svolte in regioni dell’Asia e dell’Africa, come è del tutto fuorviante l’idea secondo cui il Covid-19 sia stato sviluppato in un laboratorio di Wuhan. 

 

“C’è bisogno di un sistema alimentare meno dannoso nei confronti del pianeta, ma anche della salute pubblica” ha detto il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità Tedros Adhamon all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, esortando i capi di Stato a una progressiva abolizione degli allevamenti intensivi.  

In questi sistemi, gli animali sono di fatto cloni l’uno dell’altro, creati per rispondere alle esigenze del mercato (alta riproduttività, crescita rapida, capacità di adattamento allo stato di confinamento). Così una qualsiasi infezione può rivelarsi devastante e propagarsi rapidamente.  

Per ovviare al problema, l’industria della carne si affida alla medicina. Tonnellate di antibiotici sono somministrati agli animali come misura profilattica: non vengono cioè dati loro quando si ammalano, ma sempre e comunque, per evitare che si ammalino. Il risultato è che oggi il 73 per cento degli antibiotici prodotti al mondo è utilizzato nella zootecnia. Con la conseguenza che questi farmaci si diffondono nell’ambiente e favoriscono la nascita di super-batteri resistenti, suscettibili poi di attaccare l’essere umano rimasto a quel punto senza difese. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), infatti, ogni anno nel mondo muoiono 700mila persone in conseguenza all’antibiotico-resistenza. La stessa agenzia dell’Onu prevede che nel 2050 ci saranno 10 milioni di morti l’anno per questa causa. 

 

Con i soldi ricavati dalla Cow tax, l’Unione Europea sta creando un fondo di incentivi per finanziare l’agricoltura biologica per la produzione di mangimi che non sfruttino la monocoltura intensiva e la creazione di una nuova classe di piccoli allevatori che fanno crescere le bestie nei pascoli. Molte persone stanno tornando ad allevare e coltivare su piccoli appezzamenti di terreno e le campagne si stanno ripopolando. Grazie ai sussidi ricevuti, infatti, i piccoli produttori riescono a vendere la carne e gli alimenti di derivazione animale a prezzi concorrenziali.  

L’Unione Europea sta inoltre finanziando le aziende che producono carne a base vegetale e la cosiddetta carne in laboratorio, ossia  la crescita di tessuti animali da cellule staminali, in modo da ampliare la ricerca scientifica e stimolare la transizione verso proteine â€‹â€‹“libere da animali”: “come il trattore ha sostituito l’aratro e i buoi necessari per trainarlo, oggi la tecnologia si sta preparando a sostituire la presenza delle mucche per la produzione di latte, carne e pelle. I nuovi cibi saranno fino a 100 volte più efficienti in termini di uso dei terreni, riducendo tra le 10 e le 25 volte la necessità di coltivazioni e di 10 volte l’uso di acqua. Questo porterà anche a un calo stimato del 45% nelle emissioni di gas serra da parte dell’industria alimentare” - ha detto il Commissario all’agricoltura dell’UE Janusz Wojciechowski, che ha anche spiegato come la diminuzione degli allevamenti intensivi rappresenti un taglio dei pagamenti della Politica agricola comune (Pac). Infatti, tenendo conto dei sussidi che sostengono direttamente la produzione di bestiame, Greenpeace ha stimato che annualmente tra i 28 e i 32 miliardi di euro contribuiti vanno al settore dell’allevamento, circa il 18-20 per cento del bilancio totale dell’Unione. 

 

In un sistema globale strettamente interdipendente sia a livello economico che sociale, tuttavia, la dichiarazione di guerra dell’UE agli allevamenti intensivi ha innescato un effetto domino. Settori collegati all’industria agroalimentare come quello dei trasporti, quello dedito alla coltivazione di monocolture intensive per la produzione di mangime e quello farmaceutico che si occupa di sviluppare antibiotici e fitofarmaci per il bestiame e le piantagioni, hanno subito un drastico contraccolpo. Migliaia di aziende hanno chiuso o si sono ridimensionate, mentre milioni di persone stanno perdendo il posto di lavoro.  

Ci si chiede se il malcontento creato dalla disoccupazione debba essere considerato solo un aspetto negativo, ma transitorio, di una rivoluzione necessaria, oppure se l’inizio di una nuova emergenza globale.  

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